Affascinante Universo
Storielle cinese.
Discorso Indimenticabile
Cottolengo,
altro che mostri deformi tenuti in vita ad oltranza
Porta
Palazzo, Torino sembra una casba, un mercato mediorientale
ondeggiante di chador, vociante di richiami maghrebini. Poi giri
a destra, e ti si para davanti il Cottolengo con le sue
imponenti interminabili facciate. La strada si fa silenziosa.
Caritas Christi urget nos, è scolpito sull’ingresso, la carità di
Cristo ci sprona. Entri. Sotto ai tigli secolari ti sembra
d’essere in una città diversa. 112 mila metri quadri di
padiglioni, 3000 pasti al giorno, una mensa per i poveri, una
scuola per infermieri, un monastero di clausura, il seminario,
l’ospedale, e poi le case per disabili e anziani, in
tutto oltre seicento letti. Una città, davvero.
Ti inoltri
per i viali in un viavai di suore in veste bianca – ce ne sono
oltre seicento qui – e di ospiti che camminano adagio, claudicanti,
o in carrozzella. La reazione istintiva del visitatore è di
inquietudine – quella che provi quando immagini di dover vedere
da vicino il dolore. Del resto, un’aura di mistero gravava un
tempo su questa Piccola casa della Provvidenza. «Laggiù stanno
i mostri», si diceva a Torino. Lo dice ancora del resto,
sull’Espresso, Giorgio Bocca, che ha scritto di «un culto
della vita ad ogni costo che lascia perplessi i visitatori della pia
istituzione del Cottolengo, dove tengono in vita esseri
mostruosi e deformi».
E dunque chi entra immagina una
immersione nel dolore. Belli i viali alberati, ma, dietro
quelle finestre? Don Carmine Arice, responsabile della Pastorale
della Casa, è un pugliese arrivato qui da oltre vent’anni. Ci
porterà per i reparti, in un labirinto infinito di corridoi e stanze
e sotterranei dove, ti fa notare, un uomo in carrozzella può andare
ovunque senza incontrare un gradino: e sì che l’anno di fondazione
della casa precede di 150 anni le leggi sulle 'barriere
architettoniche'. Quel prete, san Giuseppe Cottolengo, ci aveva
già pensato. Passi per l’ospedale con gli ambulatori
affollati , riesci di nuovo, verso la chiesa. Qui il via vai delle
suore si fa più intenso.
Allo scadere dell’ora vanno
e vengono le sorelle che si alternano per tutto il giorno nella laus
perennis. C’è sempre qualcuno, in questa chiesa, che prega.
Sentinelle, che s’alternano alla guardia. Perché pregare,
diceva il fondatore, è 'il primo lavoro'. Quando aveva bisogno
di nuove strutture, fondava un nuovo monastero di clausura.
Quasi che veramente fondante fosse il pregare. Singolare
logica, pensa fra sé il visitatore del 2009, a tutt’altro sguardo
abituato; ma si direbbe, a giudicare dall’allargarsi
prodigioso di questa casa dal 1832, che funziona.
E siamo
arrivati ai Santi innocenti, il reparto dei 'mostri' nella leggenda
popolare. 122 ricoverati, quasi tutti disabili gravi. Morti
ormai i macrocefali dalla testa enorme, gli ospiti qui sono
quasi tutti handicappati anziani, età media 65 anni ( da quando
esistono le ecografie, certi figli raramente vengono al mondo.
Li individuano, e vengono eliminati). Ai Santi innocenti i
ricoverati sono divisi in dieci 'famiglie', ciascuna con una
propria casa. Grandi stanze luminose, odore di pulito. Qualche
ospite passeggia e risponde al saluto degli infermieri con un
gesto di familiare consuetudine. Una, ancora giovane, esile, un
moncone al posto di una mano, all’abbraccio di una suora
risponde prima con uno scuotersi spastico del busto; poi le
si calma fra le braccia. Le ricoverate qui, anche le più
vistosamente colpite da una disabilità che ne annebbia lo
sguardo o rende incerto il movimento delle mani, lavorano. Il
lavorare con un senso, e uno scopo, al Cottolengo è considerato
essenziale per l’uomo.
Allora al pomeriggio trovi le donne
ai tavoli dei laboratori, intente ad assemblare lentamente pezzi
di giocattoli. O, le più abili, a lavorare all’uncinetto, le
mani che con lucida precisione tramano pizzi elaborati. Una
legge da un quaderno spalancato: 'VII93XC2P', e tutta la pagina è un
susseguirsi di formule astruse, scritte a mano. È l’ordine
dei punti del merletto, spiega la suora; e rimani attonita a
contemplare il lavorio di quelle mani. Splendidi, degni di un altare,
i pezzi finiti. Le donne riconoscono don Carmine, gli
sorridono. Pare un convivio di vecchie di paese intente ad antichi
femminei mestieri.
Dov’è, ti domandi, il dolore cocente
che paventavi entrando in queste stanze? Le donne sembrano
serene nel loro lavorare, in una dimestichezza affettuosa con le
assistenti. Forse che il problema di queste persone, ti
domandi, stia più negli occhi di chi li guarda che in loro? Perché
noi dobbiamo essere efficienti, autonomi, capaci; e allora ci
sembra un povero niente, quel faticoso lavorio di dita per assemblare
una scatola di matite. Ma loro, le donne dei Santi innocenti,
ti dicono: «L’ho fatto io», e ne sono contente. Ci han messo
un’ora, a ordinare quei pastelli.
Ma qui, dice don
Carmine, «il tempo è al servizio degli uomini, e non gli uomini al
servizio del tempo». Armadi colmi di giochi ad incastro per bambini.
Banchi incrostati di anni di pitture. I quadri dei disabili sembrano
opere di impressionisti, sgargianti, tracimanti di colore. Un
grande foglio appeso al muro è tutto nero: le ospiti lo hanno
dipinto così. per raccontare la morte. Un altro è un’esplosione
di luce: quello, spiega la suora, è, secondo loro, il Paradiso.
Vai avanti e parli meno, e resti assorta a guardare. Certo, nelle
mani tremanti, negli sguardi persi riconosci come un piegarsi
della vita sotto al giogo di un antica condanna. Una ferita oscura,
originaria, in queste donne è evidente. «Dove la ferita è più
grande, la domanda è più grande. Queste perso- ne sono come un
grido, una più forte domanda di Cristo», dice don Carmine,
intuendo ciò che ti stai chiedendo. (Forse per questo, per questa
domanda evidente portata dalla sofferenza, oggi i figli
malformati si sopprimono?) No, non ci sono creature 'metà cavallo
e metà uomo' qui al Cottolengo, come fantasticavano una volta
nei paesi del Torinese. Ma solo uomini con un 'di meno', che agli
occhi dei sani è insopportabile. ( E accadeva che li
lasciassero qui con l’inganno. Li portavano per una
visita e li abbandonavano, perché quella diversità era onta
fra i sani).
Eppure Angela, sorda, muta e cieca, si alza di
scatto nell’avvertire la voce amica del prete, gli afferra le
mani, inizia un intenso discorso di gesti che la suora che le è
accanto – grossa, benigna, materna – capisce. Le risponde.
Ridono fra di loro. Oltre la maschera che, fuori, noi sani portiamo,
qui dentro intravvedi cos’è davvero un uomo. Oltre a ogni
apparenza. «Vede – dice don Arice – questo giardino, come è
perfettamente curato. Le finestre di fronte sono quelle dei malati di
Alzheimer. Ecco, questo giardino lo curiamo così perché ognuno
dei malati che lo guarda ha per noi un valore infinito». È una
concezione dell’uomo molto grande, quella che regge questo
allargarsi di case e stanze da 170 anni nel cuore di Torino.
Quando un canonico quarantenne si trovò di fronte allo
scandalo della ingiustizia e del dolore: una donna incinta e malata
respinta da due ospedali e lasciata morire in una stalla. Don
Giuseppe Cottolengo cambiò vita. Le sue case nacquero una dopo
l’altra, senza un progetto,rispondendo al quotidiano bisogno.
I soldi, all’occorrenza, arrivavano. Si mostrava evidente,
quasi in un’eco di ciò che il Manzoni proprio in quegli anni
scriveva, che «la c’è, la Provvidenza». Malati segregati, poveri
'mostri' da imboccare e amare, confluirono nella Casa.
Oggi nuovi poveri premono alle porte della cittadella
dietro a Porta Palazzo. Vecchi dementi, lasciati soli in case
vuote: la nuova emergenza, sono i vecchi. La Piccola Casa resta
nel cuore della Torino del Duemila, crocevia di mille
etnie, come un segno. Giovanni Paolo II qui disse: «Se non si
comincia da questa accettazione dell’altro, comunque egli si
presenti, in lui riconoscendo un’immagine vera anche e
offuscata di Cristo, non si può dire di amare veramente ».
Tutto un altro amore. Tutta un’altra logica, da quella di cui
scrivono i giornali
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